Sono un oncogeriatra. I miei pazienti sono quindi anziani o comunque complessi, oltre che oncologici. Non hanno quindi solo un tumore, ma spesso sono affetti da altre malattie croniche che possono riacutizzarsi nel corso dei trattamenti oncologici. Ecco perché è fondamentale disegnare su ognuno di loro il trattamento più adeguato, riducendo al massimo la tossicità senza compromettere l’efficacia delle cure. Per questo seguiamo i pazienti nel periodo in cui sono in trattamento e poi li ricontrolliamo anche una volta che le cure sono finite. Ed è proprio in occasione di questi incontri di follow up che alcuni pazienti ci hanno raccontato delle loro difficoltà cognitive, di come si sentissero rallentati nell’eseguire i compiti di tutti i giorni. Un rallentamento minimo, tanto da non trovare riscontro nei dati clinici, ma tale da impattare sulla loro qualità di vita, sul rientro nell’attività lavorativa, nei rapporti con gli altri.
Sappiamo ed abbiamo evidenze di letteratura che alcune terapie oncologiche possono causare un annebbiamento, quello che viene definito “chemo brain” o meglio “chemo fog”. Sulla base di queste evidenze scientifiche e della nostra esperienza abbiamo quindi deciso di condurre uno studio per capire se e quando questo fenomeno inizia durante la somministrazione delle cure per il linfoma non-Hodgkin. I risultati della nostra ricerca, finanziata dal Fellowship Program, hanno dimostrato – grazie all’utilizzo dei test usati per valutare i primi segni del deterioramento cognitivo – che le terapie possono avere come effetto collaterale proprio questo annebbiamento e quando inizia a presentarsi.
Non solo: i risultati dello studio mostrano che la qualità di vita può essere migliorata. Per questi pazienti, infatti, è estremamente frustrante vivere la loro condizione: sentirsi rallentati, non riuscire più a compiere operazioni quotidiane, a concentrarsi e non vedere riconosciuto il proprio disagio.
Una situazione che ora può cambiare. Una volta individuato il problema, infatti, possiamo agire, anche se il paziente è ancora in terapia: l’oncologo può decidere di modificare il trattamento, possiamo parlare con il malato e renderlo consapevole; possiamo scegliere se di utilizzare quei farmaci e parafarmaci già testati nelle forme iniziali di demenza che possono contrastare l’“annebbiamento” a cui è soggetto il paziente.