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Dall'idea alla realtà

La prevenzione dell’HCV entra in carcere

Per chi vive in un istituto penitenziario la prevenzione e la tutela della salute non sono preoccupazioni prioritarie. Eppure è proprio dentro le carceri che si registra un tasso elevato di persone con problemi di salute, fra tutte l’infezione da HCV. Trasformare questi serbatoi di contagio in luoghi di informazione, educazione e formazione sulla salute è l’obiettivo di SIMSPe ONLUS, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, che entra nelle carceri italiane per portare informazione e prevenzione sull’epatite C.

Una trasformazione che parte dal metodo con cui le informazioni sanitarie vengono presentate ai detenuti: un percorso in cui i detenuti vengono contattati e sensibilizzati sezione detentiva per sezione detentiva con l’appoggio di alcuni peer educator, ovvero ex detenuti malati che insieme agli specialisti vanno a presentare la situazione. Ma possono anche essere persone che in quel momento sono detenute, che hanno capito il significato e l’importanza di accedere alle terapie e sfruttano il periodo della detenzione per guarire. Nessuna informazione calata dall’alto, quindi, e gestita senza contatto umano, ma una comunicazione orizzontale, empatica, solidale.

Non è vero che i detenuti non sanno recepire i messaggi di salute. Se la trasmissione avviene in maniera corretta, non verticistica, non viene imposta ma condivisa, il messaggio viene recepito perfettamente”, afferma Sergio Babudieri, Direttore della Clinica di Malattie Infettive e Tropicali, Università di Sassari. “Noi siamo entrati in casa loro bussando, facendo riunioni preliminari con una, due o più sezioni. Siamo andati a spiegare cos’è la malattia, quanto è diffusa all’interno degli istituti e quanto è alto il rischio che anche durante la detenzione si possa prendere. La risposta è stata ottima. Non solo la quasi totalità dei detenuti ha accettato di fare il test, ma si è innescato un meccanismo di sensibilizzazione reciproca che ha amplificato il nostro lavoro”.

Il periodo detentivo può e deve quindi essere l’occasione di informazione, diagnosi e trattamento dell’infezione da HCV, a beneficio delle singole persone, della comunità carceraria e dell’intera società, che una volta finito il periodo di detenzione vedrà reintegrarsi persone consapevoli dei rischi connessi a specifici comportamenti e della possibilità di prevenire l’infezione da HCV.

Il progetto, vincitore al Fellowship Program nel 2018, ha portato la quasi totalità dei detenuti contattati a sottoporsi al test. Durante gli incontri si è ottenuto un obiettivo ulteriore, l’emersione del sommerso: in alcuni casi, detenuti che sapevano di essere infetti ma che non lo avevano comunicato a medici e infermieri sono usciti allo scoperto dichiarando la loro positività. In questi casi, invece del test, gli operatori si sono preoccupati di determinare il loro stato di salute. È stato così possibile individuare una percentuale molto alta, superiore al 65%, di persone guarite spontaneamente o grazie a terapie intraprese in precedenza.

I nostri sono progetti pilota che conducono a risultati concreti, riconosciuti e validati dalla letteratura scientifica internazionale. Il progetto è stato infatti presentato al comitato etico dell’Istituto Superiore di Sanità ed è applicabile ad ogni istituto penitenziario italiano. Abbiamo quindi centrato il nostro obiettivo: dare il buon esempio a chi si occupa di sanità a livello nazionale, dimostrando che le cose si possono fare”, conclude Babudieri.

 

Progetto Vincitore

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